LA BELLA FAGGETA, PATRIMONIO DELL'UMANITA'... A SUA INSAPUTA - DI UMBERTO LAURENTI
Soriano nel Cimino – Mi sono salvato dal torrido caldo romano
di questo periodo solo perché ho fatto il pendolare verso la faggeta del monte
Cimino. C’ero stato qualche volta negli ultimi anni, fermandomi a mangiare nell’ottimo
ristorante “La Baita”.
Ma questa volta ho voluto ripercorrere
tutti i sentieri fino alla sommità, come avevo fatto nei primi mesi del 1971
per avere una conoscenza completa dei luoghi.
Allora stavamo
preparando con un gruppetto di amici un convegno di studi per proporre la
creazione del “Parco naturale dei monti Cimini”: di quella iniziativa, la prima
embrionale avvisaglia di sensibilità ambientalista nella Tuscia, a distanza di
49 anni restano per me il ricordo di una bella e giusta battaglia giovanile, gli atti del convegno che aveva avuto prestigiosi
relatori quali Fulco Pratesi, Franco Tassi, Francesco Baschieri Salvatori,
Giuliano Montelucci, e l’originale della china disegnata dal pittore viterbese
Romano Liviabella per il manifesto della mostra fotografica nazionale
Natura Oggi, che organizzammo a Viterbo in quel maggio ’71 in
contemporanea al convegno.
Il messaggio fondamentale presente in
tutte le relazioni scientifiche era: “La zona dei monti Cimini costituisce un
biotopo unico al mondo di singolare bellezza, è il più importante polmone della
città Roma e un ecosistema di inestimabile valore per la Tuscia”. Con qualche
difficoltà e non poche opposizioni tale messaggio fu sostanzialmente recepito
dall’opinione pubblica e dalle istituzioni, tanto da portare alla creazione nel
1982 della riserva naturale del lago di Vico e all’unanime riconoscimento della
necessità di salvaguardare l’ampia area boschiva dei monti Cimini, che seppure
con estensione molto ridotta, testimonia e perpetua la millenaria “selva
ciminia” della cui bellezza, impraticabilità e pericolosità di allora hanno
scritto Tito Livio, Plinio il Vecchio, Varrone e tra i moderni Giosuè Carducci.
Quando Quinto Fabio
Rulliano nel 312 a.C. riuscì ad attraversarla, i romani potettero finalmente
sconfiggere gli Etruschi, ma furono così affascinati dalla loro cultura da
assorbirne molti aspetti, a partire dalle scienze dell’idraulica e delle
costruzioni, lasciando intatti nei luoghi che furono patria degli Etruschi
ricordi, monumenti, bellezze naturali, tratti caratteriali e linguistici che
ancora sono peculiari della popolazione dell’Alto Lazio.
Con splendide parole Bonaventura Tecchi
descriveva in uno scritto poco noto nel 1943 tutto ciò: “Si può parlare di un
carattere, di un clima morale, di un aspetto del paesaggio, caratteristici
dell’Alto Lazio? Proprio da tanti contrasti del passato, da influenze diverse,
dal non essere né Toscana, né Umbria ma neppure Lazio in senso stretto, è
derivato alla Tuscia un suo carattere. Probabilmente il suo fascino deriva
dall’incrocio di due sogni diversi, quello di Roma che trionfò nel mondo, ed il
ricordo di un altro sogno, rimasto nella memoria degli uomini quasi soltanto un
mistero, gli Etruschi”.
Questo sentimento si
respira in particolare passeggiando nei 50 ettari della faggeta del monte
Cimino, dai botanici denominata “vetusta” per la straordinaria condizione di
vivere da sempre nella maniera più naturale, senza cioè alcun intervento
dell’uomo, neppure di manutenzione, seguendo il concetto che anche in un albero
morto c’è vita, e che occorre rispettare i cicli lunghi della natura.
Ma torniamo all’agosto 2019. Poche decine
di persone, in genere famiglie con figli e cani al seguito, percorrono i
sentieri della faggeta aiutati da essenziali cartelli indicatori e da tabelloni
didattico-esplicativi realizzati dall’università della Tuscia. Ben differente è
però la situazione nei weekend, quando centinaia di auto si ammassano
disordinatamente nel piazzale antistante l’ingresso e i visitatori sono
ovviamente molti di più, avendo a disposizione dentro la faggeta solo due
panchine e nemmeno un cestino per i rifiuti, mentre nel piazzale i grandi
cassoni per la differenziata sono fin troppo vistosi per la loro
antiesteticità.
Eppure anche in quei giorni critici, quasi
per spontaneo rispetto verso una natura così bella, nonostante i visitatori
diventino molte centinaia, nonostante quasi tutti consumino un picnic sul
posto, con attrezzature e cibo portati con sé, nonostante non ci siano servizi
igienici e neppure una fontanella d’acqua a disposizione, e il rimedio per
questo è ricorrere ai servizi del bar o del ristorante “La Baita” offerti anche
a chi non è cliente, a fine giornata tutto resta pulito e la natura silenziosa
e immutabile torna ad apparire nella sua silenziosa bellezza.
Siamo nel territorio
del comune di Soriano nel Cimino. Ai suoi amministratori non è mai venuto in
mente di inviare almeno nei giorni festivi un vigile urbano a regolare il
parcheggio nel piazzale, di approntare un paio di bagni chimici a pagamento, di
porre all’interno della faggeta qualche cestino per i rifiuti e qualche
panchina? E cosa aspettano a utilizzare il bell’edificio che si trova a due
chilometri dal piazzale, terminato ormai da quattro anni abbondanti e
destinato ad ostello per la gioventù, miracolosamente ancora intatto e non
deturpato da vandali o intrusi di passaggio?
Considerazioni che potrebbero apparire
banali e scontate, le mie, perché purtroppo valide per la quasi totalità delle
località italiane mete di turismo.
Sono invece obbligate e anche
insufficienti in questo caso, poiché la faggeta vetusta del monte Cimino è
stata inserita dall’Unesco, nel luglio 2017, nell’elenco dei luoghi
riconosciuti, per unicità e caratteristiche naturali, patrimonio dell’umanità.
Decine di località nel mondo, ambiscono a ricevere tale prestigioso
riconoscimento e lo utilizzano poi per attrarre flussi qualificati di turismo
colto e responsabile. Nel nostro caso invece, non solo non si è adottato nessun
intervento infrastrutturale e nessun accorgimento organizzativo a fronte di una
novità così significativa, ma con una noncuranza che prima o poi verrà a
conoscenza dell’Unesco, e che comunque è desolatamente miope, non si è provveduto nemmeno ad apporre fuori o dentro la Faggeta,
la benché minima indicazione dell’appartenenza a un così prestigioso e
ristretto elenco di bellezze naturali. Quasi che tutto debba avvenire…
all’insaputa dell’umanità.
Sarebbe interessante prendere conoscenza
di come si sono organizzate, per diffondere la conoscenza del riconoscimento
ottenuto e per trarne i massimi benefici in termini di afflusso turistico, le
altre faggete vetuste che l’Unesco ha scelto in 12 Paesi e in particolare le
dieci italiane. Chissà, forse all’ingresso della faggeta di monte Raschio nel
comune di Oriolo Romano, che figura anch’essa nell’elenco Unesco, qualcuno ha
provveduto a mettere un cartello o almeno una targhetta.
Umberto Laurenti
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