ARRIVARE A BERLINO E VIVERCI - di Umberto Laurenti



Viterbo – Nei giorni scorsi abbiamo tutti festeggiato o comunque ricordato i trenta anni dalla caduta del Muro di Berlino, quella giornata del 9 novembre 1989 che cambiò la vita dei berlinesi ma anche dell’Europa intera, e abbiamo letto tanti articoli e visto tanti documentari su un episodio che ha cambiato la storia. Ora che lo “sciame celebrativo” si è esaurito, con questo mio scritto voglio offrire un ricordo da viterbese che ha frequentato quella città simbolo e vissuto quegli anni da spettatore privilegiato.
Per chi come me è nato pochi anni dopo la seconda guerra mondiale l’argomento Germania non era usuale: forse inconsciamente si voleva rimuovere l’alleato scomodo e ingombrante che aveva trascinato l’Italia in una avventura finita molto male. Nella mia famiglia poi pesava anche il ricordo del periodo finale della guerra, quando i tedeschi avevano occupato Carbognano e le case dei miei nonni e dei miei prozii erano state requisite ed adibite a mense per gli ufficiali e i sottufficiali, ma in altre famiglie c’erano ricordi ben più tragici. 
Fatto è che quasi nessuno studiava il tedesco quale lingua straniera a scuola, pur essendo prevista e che a nessuno o quasi veniva in mente di fare un viaggio turistico nella Germania divisa tra le potenze vincitrici e ancora semidistrutta.
Così noi, ancora adolescenti, ci accorgemmo di Berlino nel 1963. Il presidente Kennedy era arrivato in Europa, accolto trionfalmente a Roma il primo luglio e soprattutto a Napoli il 2, proveniente dalla storica sosta a Berlino del 26 giugno, quando aveva scosso tutte le coscienze degli uomini pensanti con la sua frase pronunciata difronte al Muro: “Ich bin ein Berliner! (Sono anche io un berlinese!)”.
Ma noi giovani viterbesi al massimo guardavamo a Londra, complice la musica da discoteca che superava confini e distanze, e nonostante uno dei viterbesi allora più noti nel campo letterario, Bonaventura Tecchi, fosse un grande germanista, nonostante al liceo il nostro prof. Pesaresi ci ricordasse di continuo come fossero tedeschi i massimi studiosi delle antichità greca e latina, nonostante fosse presente ormai da anni sulle rive del lago di Bolsena una folta colonia turistica estiva tedesca, nonostante fosse ben presente la Tuscia nei musei di Berlino attraverso centinaia di reperti etruschi là giunti grazie all’attivismo dei tuscaniesi Campanari e i loro epigoni, come avrei scoperto di persona quindici anni più tardi, nonostante tutto questo noi giovani viterbesi non sapevamo nulla della Germania e di Berlino.

Eppure pian piano l’Europa e il mondo sentivano di nuovo la presenza economica e politica tedesca, pur se rappresentata dalla sua sola parte occidentale, mentre la parte orientale a dominazione sovietica restava pressoché sconosciuta e comunque esclusa dalla crescita economica e da ogni fermento culturale e politico.
Anche per me gli anni passavano, mi ero avvicinato all’impegno politico nel movimento giovanile della Dc prima in ambito viterbese e poi con responsabilità nazionali. Alla fine del 1976 si era costituito il movimento giovanile della Dc europea-Ppe e ne ero stato eletto primo presidente europeo. Iniziò così il mio andirivieni con Bruxelles, dove si riuniva la direzione del Ppe,  della quale facevo parte di diritto in rappresentanza dei giovani.
Bruxelles però non mi attraeva molto come città, la trovavo grigia, anche per questo le riunioni del direttivo giovanile preferivo convocarle a turno nelle varie capitali europee. Mio vice era un tedesco, Matthias Wissmann, divenuto in seguito ministro dei trasporti della Germania, che spesso era su posizioni politiche differenziate dalle mie, ma per fortuna godevo di una tranquilla maggioranza dovuta al sostegno della delegazioni italiana e di tutte le altre, ad eccezione di quella lussemburghese e austriaca, sempre schierati con i tedeschi. Ogni volta che si decideva di tenere una riunione, un convegno, una manifestazione in Germania, immancabilmente questo mio vice proponeva Berlino, anziché Bonn che era la capitale della Germania occidentale o qualsiasi altra città, non mi ci volle molto a capire che quella continua richiesta rispondeva ad un preciso intento politico: mostrare all’Europa intera, attraverso noi suoi giovani dirigenti politici, l’innaturale condizione di vita della città di Berlino, che così imparai a conoscere bene e dalla quale rimasi affascinato, nonostante tutto.
Sì, perché arrivare a Berlino e viverci per qualche giorno era una esperienza traumatica, soprattutto poi se si era costretti, come mi capitò diverse volte, ad arrivare in treno, essendo spesso intasati e non agibili i due aeroporti che servivano Berlino Ovest. Soprattutto perché, lo evidenzio per chi non avesse chiari i confini di allora, la cosiddetta cortina di ferro, per arrivare a Berlino Ovest si partiva sì dalla Germania Ovest, ma si doveva traversare una larga fetta di Germania orientale comunista, con i vopos che effettuavano controlli minuziosi e ripetuti, con l’ausilio di cani e di specchi per ispezionare la parte sottostante dei vagoni ferroviari. Arrivati a Berlino Ovest, si trovava sì una città moderna, luminosa, piena di vita e di ricchezza, ma bastava prendere la U Bahn, la metropolitana, per rendersi conto che si era immersi in una situazione di vita innaturale, forzata e anche ansiogena, visto che su tre fermate della metropolitana che si passavano, almeno due erano murate, poiché corrispondevano ad uscite situate nella zona est.
Se poi una volta arrivato a Berlino Ovest piena di automobili, di negozi fornitissimi e splendenti, di strade super illuminate, il visitatore decideva di avvicinarsi all’orribile muro divisorio e di traversare il checkpoint Charlie per andare a Berlino Est, doveva mettere in conto non solo stress e paura ma anche lo shock di ritrovarsi in una città premoderna, buia, con pochi negozi e comunque con vetrine desolatamente vuote, passanti mal vestiti e frettolosi, con l’evidenza di una città artificiosamente e violentemente divisa in due, tagliata proprio nei suoi luoghi simbolo, Unter den Linden e Porta di Brandemburgo. Ed era una separazione così incisiva da apparire a tutti definitiva, nonostante la sua mostruosità, al punto che tutti la ritenevamo destinata a durare ancora a lungo. E tutti fummo sorpresi, positivamente ma realmente sorpresi dal Muro che veniva abbattuto, dando il segnale per la caduta di quella “cortina di ferro” che separava l’Europa.
Ma fino al 9 novembre 1989 tutto ciò era semplicemente impensabile e a Berlino non si respirava certo l’aria di gioventù, di innovazione e modernità che oggi caratterizza quella città. Eppure le tante volte che in quegli anni sono stato a Berlino, mai ho rinunciato a passare al di là del Muro, stando ben attento a ripresentarmi al confine per rientrare nell’Ovest almeno mezz’ora prima della mezzanotte, ora del coprifuoco per ogni straniero, ed ogni volta arrivavo ad AlexanderPlatz e là accanto entravo sia all’Altes Museum che al Pergamon Museum, dove con teutonica precisione e cura erano esposte innumerevoli favolose opere d’arte dell’antichità e tra esse alcune centinaia di reperti etruschi, provenienti da Vulci, Canino, Tuscania, Tarquinia: vasi, sarcofagi, oggetti d’oro, e ben duecentocinquanta specchi bronzei.
A quell’epoca non ero ancora venuto a conoscenza della straordinaria vicenda della famiglia Campanari, ancor oggi nota soprattutto per l’esposizione di reperti etruschi organizzata alla Pall Mall di Londra nel 1837, con la geniale trovata scenografica, oggi si direbbe di “realtà aumentata”, di disporre i reperti in un salone con le pareti affrescate con scene di vita etrusca: il successo dell’esposizione fu clamoroso, dando inizio al filone di turismo colto da tutto il mondo che ancora oggi è ben vivo verso la Tuscia. Ma a ciò occorre aggiungere che Vincenzo Campanari, tuscaniese di origine marchigiana, svolse per tutta la prima metà dell’800 la sua attività di scavo di reperti etruschi unendo alla indubbia passione e competenza anche una innovativa propensione commerciale, arrivando a suddividere ed assegnare ai suoi tre figli i mercati inglese, francese e tedesco.
Prima dei Campanari invece, erano in genere famiglie nobili locali a farsi assegnare dal governo pontificio l’autorizzazione allo scavo e quanto veniva tirato fuori rimaneva nelle loro case private o veniva donato a musei. Dopo di loro sono arrivati i “tombaroli” ed il sottosuolo della Tuscia è stato ancor più saccheggiato, con l’aggravante che ciò è avvenuto ed avviene senza regole, senza attività di catalogazione, senza certezza né sulla provenienza dei reperti né sulla loro destinazione finale. Fatto salvo quel che deriva dalle campagne di scavo operate dalla soprintendenza o da missioni di università italiane e straniere.
Comunque quel che di etrusco-viterbese c’era e c’è ancora nei musei berlinesi, in gran parte deriva dalla attività dei Campanari ed altri nell’800 che permise, certo ai protagonisti di arricchirsi, ma al mondo intero di conoscere la storia degli Etruschi fino ad allora misteriosa, e con essa la Tuscia.
Umberto Laurenti

ORIGINALMENTE PUBBLICATA SU "TUSCIAWEB" IL 21 NOVEMBRE 1919

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