A causa di barbieri e parrucchieri, l’Italia per i polacchi cambiò nome - di Umberto Laurenti
Foto: da Le Delizie della tipografia polacca: Cronicon dei Re Polacchi- Cracovia-1521
Apro i giornali e leggo che a metà maggio riapriranno i Musei, mentre solo il primo giugno i barbieri ed i parrucchieri. La bellezza ha molteplici percorsi per esprimersi, in tempi di Covid-19! Abbiamo più tempo, da casalinghi forzati, per riflettere e ricordare: così mi viene in mente un curioso ricordo della Polonia, un paese dove cultura e prodotti italiani hanno sempre avuto piena cittadinanza e sempre si è percepito un forte legame di simpatia con radici antiche ma non troppo note.
Andai la prima volta in Polonia nel giugno 1976, con una rappresentanza dei dirigenti nazionali dei movimenti giovanili dei vari partiti italiani; un gruppo numeroso, i primi nomi che ricordo sono quelli di Enzo Bianco, Beppe Scanni, Ottavio Lavaggi, Massimo Ostillio. Partimmo da Roma il 21 giugno, con le urne elettorali ancora aperte, per quelle elezioni politiche in cui sembrò molto probabile il sorpasso del PCI sulla DC, non riuscito solo per l’insperato recupero di questa, grazie al suo nuovo segretario politico nazionale, Benigno Zaccagnini. Ci accolse una Polonia tetra, povera, sospettosa, dove ogni passo era controllato a vista da agenti della polizia politica; per fortuna nostra, la giovane interprete assegnataci era carina ed espansiva, e grazie a lei capimmo quanto l’Italia, con il suo modo di vivere, la sua immagine di arte, cultura e bellezza, era per i polacchi un esempio da ammirare; ci fu pure molto chiaro quanto profondo fosse il loro odio nei confronti dei sovietici e quanto fosse distante il loro modo di pensare da quello dell’altro confinante ingombrante, la Germania, ed istintivamente ci guardavano come possibile terza via; tra l’altro mentre eravamo là, iniziavano i moti di Danzica guidati da Lech Walesa, poi leader di Solidarnosc e Presidente polacco nel post comunismo. Mentre visitavamo l’ambasciata italiana a Varsavia, mi colpì il fatto che nella traduzione del termine “italiano” in lingua polacca, a differenza che per tutte le altre lingue, si perdeva la radice della parola, e si traduceva con “wloski”, che però significa: capellone, barbuto, peloso. Chiesi spiegazione ma nessuno dei presenti me la seppe dare, anche perché tutti occupati ad ammirare la sede dell’ambasciata, palazzo Szlenkier, uno dei pochissimi edifici storici di Varsavia scampati ai bombardamenti della guerra mondiale, nella piazza Dabrowski, una delle più belle di Varsavia, dedicata al generale che con le legioni polacche combatté nelle campagne d’Italia al seguito di Napoleone. Ho visitato molte volte la Polonia negli anni seguenti, ammirando Varsavia, Danzica, Poznan, Breslavia, i laghi Masuri, ma soprattutto Cracovia, l’antica capitale rimasta indenne dalle distruzioni belliche, dove tutto richiama ricordi e somiglianze inconfondibilmente italiane, dalla Università Jagellonica, tra le più antiche d’Europa, alle tante chiese piene di opere d’arte, al castello di Wawel con le meraviglie che contiene, tra cui la Dama con l’ermellino di Leonardo, ai palazzi in stile gotico, rinascimentale, barocco. Solo visitando Cracovia si può cogliere appieno quell’humus culturale che accomuna Italia e Polonia, che trae origine dalla vicenda storica di Bona Sforza, duchessa di Bari e regina di Polonia per 39 anni nei quali governò con forte personalità, lasciando tracce indelebili di cultura rinascimentale, ma anche di innovazione nella produzione agricola in un territorio vastissimo ed allora comprendente oltre la Polonia attuale, anche l’Ucraina, Lituania e Bielorussia. Una donna, Bona Sforza, autentica promoter della civiltà italica, ed anche bella, che nel 1517 a 23 anni andò sposa del re Sigismondo I Jagellone. Per raggiungerlo, Bona Sforza, da Bari, dove poi tornò e trascorse l’ultimo anno della sua vita e dove morì a metà novembre 1557, partì con un lungo corteo di carri che trasportavano vestiti e stoffe, libri, opere d’arte, ma anche sementi di tantissime specie, ed è grazie a questo che quella parte dell’Europa centrale è ancora oggi zona di grandissima produzione per cereali, ortaggi, barbabietole, canapa, frutta, etc, per cui non sorprende che ancora oggi, le donne polacche che al mercato cercano la mazzetta degli odori chiedono “l’italianetta”. Una comunanza culturale, quella tra Italia e Polonia, rimasta carsica per tutto il ‘900, nonostante le tante assonanze, non ultima la condivisione della religione cattolica, salvo poi riemergere con evidenza grazie a Wojtyla-papa Giovanni Paolo II ed al crollo del comunismo e della cortina di ferro.
Solo pochi anni fa, grazie al mio caro amico ambasciatore Luca Daniele Biolato, ho potuto conoscere la spiegazione del perché un italiano è wloski! Come sappiamo, Bona Sforza partì per Cracovia con un corteo di 350 carri, ed il viaggio durò quattro mesi: all’arrivo tutti avevano barba, capelli, peluria molto cresciuti, per cui ai polacchi che assistevano incuriositi all’arrivo, venne spontaneo denominarli wloski. La regina rinascimentale che ben presto divenne padrona assoluta di Polonia, introdusse nel paese tutte le arti, tra le quali con particolare cura quella dell’oreficeria, ed anche le varie forme di artigianato: una visibile conseguenza fu l’arrivo dall’Italia di un folto gruppo di parrucchieri. E questo confermò ai polacchi che l’uso di quel termine era azzeccato. Anche Bona Sforza ha subìto nei secoli una sorta di damnatio memoriae acriticamente recepita dallo storico moderno polacco più accreditato, St Gorsky, salvo venire riabilitata negli anni più recenti. Resta comunque il fatto che barbieri e parrucchieri venivano visti non solo come artigiani necessari ma anche come interpreti di una forma d’arte e di bellezza. Come oggi.
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